Giorgio Armani Operations : Sfruttamento dei Lavoratori

Venerdì il tribunale italiano ha posto sotto amministrazione giudiziaria l’azienda “Giorgio Armani Operations” di proprietà del gruppo di moda italiano Armani. L’azienda è stata accusata di subappaltare indirettamente la sua produzione a società cinesi che sfruttano i lavoratori.

Giorgio Armani Operations caricatura

Secondo le testimonianze dei lavoratori e gli accertamenti dei carabinieri, emerge un quadro preoccupante:

  • La produzione era attiva per oltre 14 ore al giorno, inclusi i festivi.
  • I lavoratori erano sottoposti a ritmi massacranti, con pericoli per la sicurezza e condizioni alloggiative degradanti.
  • Le paghe oscillavano tra i 2 e i 3 euro all’ora, ben al di sotto del minimo etico.

È sconcertante che una notizia così grave non abbia ricevuto maggior risonanza mediatica da parte del settore moda, ma purtroppo non è sorprendente. Il problema è strettamente legato al branding, una strategia finalizzata a far identificare le persone con un marchio e a spingerle a scegliere i suoi prodotti rispetto alla concorrenza.

Questa strategia si applica con vari processi, tra i quali, sborsare enormi somme per campagne pubblicitarie che finiscono sulle cosiddette “Riviste Patinate”. Non è un caso che le grandi testate di moda come Vogue, Elle, Marie Claire e anche quelle digitali come NSS, insieme ai vari periodici, evitino volontariamente di parlare di questo caso perché la Giorgio Armani s.p.a potrebbe investire milioni di euro in pubblicità sulle loro pagine; e, naturalmente  non vorrebbe associare il proprio marchio a uno sfruttamento così vergognoso dei lavoratori da parte della Giorgio Armani Operations.

Quindi, perché dovrebbero sacrificare migliaia di euro per un articolo che potrebbe danneggiare la loro relazione commerciale con un marchio così influente? È più conveniente tacere.

Così, tutti i soldi spesi per comunicare uno status, un rango, un’appartenenza, vengono sottratti da altre parti del settore. Ecco spiegato perché si sfrutta un lavoratore pagandogli appena 2 euro all’ora, e perché un capo di abbigliamento Armani, che vale forse 75 euro, possa arrivare a costarne duemila nei negozi.

Questo processo è molto più ampio di quanto possa sembrare, e sto solo raschiando la superficie.

Anche il libro “No Logo” di Naomi Klein, che ha sollevato la questione del branding e dei suoi processi, soprattutto in relazione alla Nike e alle fabbriche sfruttatrici in Indonesia e nelle Filippine, è finito nel dimenticatoio. Ma il problema non riguarda solo Nike; oggi l’attenzione si concentra, giustamente, sulle aziende di “Fast Fashion” come Shein, H&M, Zara e altre, dove l’assemblea nazionale francese ha approvato una legge che mira a ridurne impatto. Tuttavia, resta il sospetto che questo possa essere un diversivo per distogliere l’attenzione dalle grandi griffe, i cui processi di sfruttamento della manodopera sono almeno simili, se non identici.

Concludo ricordando, giusto per correttezza, che il caro Giorgio Armani, ha raggiunto gli 89 anni con un patrimonio netto stimato da Forbes nel 2024 di 12,1 miliardi di dollari. Tuttavia, se dovessimo valutare i suoi quasi 50 anni di lavoro con il suo brand da un punto di vista creativo e di innovazione non arriva a sfiorare nemmeno la mediocrità.

Articolo di : Francesco Di Sante

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