«Venire qui è evadere dalla realtà» – racconta Michael Jackson dello Studio 54, la discoteca più bold che ha segnato la storia di New York City in the late 70s.
- The meeting point – Studio 54
- The mixing point – Fashion subcultures
- The perfectly crafted point – Il piacere più intenso
- The last show – Conclusione
The meeting point – Studio 54
Per chi non lo conoscesse, lo Studio 54 è stato il nightclub di più in voga, eclettico e wild nato nel 1977 dall’estro di Ian Schrager e Steve Rubell. Studio 54 ha riunito un ventaglio enorme di persone per creare uno spazio in cui celebrities e personaggi di un certo calibro potessero incontrarsi e mescolarsi con persone comuni. Ci si dimenticava della propria popolarità o denaro, interessava solo la voglia di divertirsi e di evadere dalla realtà opprimente. Il club ha offerto un rifugio dove persone provenienti da diversi ambienti, orientamenti sessuali e identità di genere potessero riunirsi senza pregiudizio.
Nei soli 33 mesi di vita dello Studio, chi lo frequentava si riconosceva ed era parte di una community elitaria, e chi non si incontrava agli eventi semplicemente non era riuscito ad entrare – e questo è stato un chiaro statement di popolarità.
L’ingresso non era scontato, si doveva piacere, non c’erano regole precise – i bouncer si limitavano a respingere chi indossava capi in poliestere e grosse catene d’oro – era una questione di positive vibes, audacia, aver voglia di distinguersi, come Bianca Jagger su un cavallo bianco.
Tra i più grandi frequentatori si annoverano personaggi dello spettacolo come David Bowie, Tina Turner, Elizabeth Taylor, Al Pacino, Jackie Kennedy Onassis, Elton John, Cher and Michael Jackson. Le fate madrine erano Grace Jones, Diana Ross e Liza Minelli che saltuariamente concedevano qualche esibizione; era luogo di ritrovo di stilisti come Halston, Elio Fiorucci e Diane von Fürstenberg.
The mixing point – Fashion subcultures
Lo Studio 54 fungeva da parco giochi per esplorare e spingere i fashion boundaries, ispirando una generazione di trendsetter e lasciando un segno indelebile nella cultura popolare. Elio Fiorucci traeva ispirazione anche solo dalla strada, nell’osservare la calca di gente che cercava di entrare nel club; Halston ne era il fervido promotore.
La disco fashion racchiudeva l’extravaganza e il glamour che riflettono lo spirito edonistico dell’epoca. Icone come Liza Minelli e Grace Jones ne erano l’esempio lampante – con paillettes e colori audaci brillavano sotto le luci del club. Le texture dovevano essere scintillanti, dovevano catturare e riflettere la luce per creare un effetto abbagliante che si intonasse all’ambiente del club. Tessuti come metallic lamé, lurex, raso e seta erano i favoriti. Il ruolo cruciale era degli accessori, del bold make up e delle dramatic acconciature che elevavano l’intero attire.
Tutto ma non outfit banali, il club si pone come luogo di sperimentazione e self-expression – ed è proprio per seguire questo filo che spopolano idoli come Amanda Lepore, modella transgender e performance artist. Divenne famosa per il suo striking look, spesso caratterizzato da femminilità smisurata, tra cui le labbra esagerate, grandi seni, e capelli biondo platino. La sua presenza e la sua nightlife hanno contribuito a sfidare le nozioni tradizionali di genere e bellezza – essere una donna transgender l’ha resa una pioniera per la comunità LGBTQ+ e un simbolo di emancipazione per molti.
La presenza fissa di clienti come David Bowie e Iggy Pop ha permesso l’incontro della disco fashion con il glam rock e la nascita di un’estetica flamboyant e gender-bending. Studio 54 ha offuscato i tradizionali confini di genere, accogliendo la moda androgina e l’espressione di genere fluido. Grace Jones sfida le nozioni convenzionali di femminilità e mascolinità, sfoggiando look audaci e taglienti contro ogni tipo di categorizzazione.
Pur essendo conosciuto per la sua disco fashion, lo Studio ha accolto membri della sottocultura punk – giacche di pelle, jeans strappati e accessori borchiati – e della boho chic – caratterizzata dalla sua estetica rilassata e libera, floppy hats, frange, flowy silhouettes e materiali naturali.
Nel complesso, la moda allo Studio 54 è stata una celebrazione dell’individualità, dell’autoespressione e della profonda esigenza di evadere dalla pesante realtà, in riflessione allo spirito spensierato della disco era.
Da un punto di vista narrativo, attraverso la lente del fotografo Bill Bernstein la disco era presentava una leggera innocenza – ci si trovava in una sorta di utopia fugace che iniziava di notte e resisteva fino alle prime luci del mattino.
Le sue fotografie – diventate un’iconografia culturale e un punto di riferimento – catturano le qualità per eccellenza della discoteca: la messa in scena elaborata, gli abiti, la moda, i personaggi, le comunità e eventi storici salienti. Ad esempio, la cultura queer è diventata determinante per la propria divulgazione e la cultura nera è stata decisiva nella creazione della musica. In aggiunta, per la prima volta le vere star erano donne, era il momento di dive come Donna Summer e Gloria Gaynor – Inclusione era la parola chiave.
The perfectly crafted point – Il piacere più intenso
Non c’è mai stato un momento di noia dietro le porte dello Studio 54, mentre gli acrobati giravano, le donne ballavano in topless, i palloncini colorati cadevano dal soffitto e i glitter venivano buttati sulla pista da ballo.
Ciò che distingue lo Studio dalle altre discoteche dell’epoca era la sua atmosfera unica e inclusiva che invitava le persone ad evadere dalla triste realtà. Attraverso la musica, la danza e la moda, la comunità LGBTQ+ si sentiva a casa e al sicuro nelle mura del locale, in contrasto con la società esterna contaminata dall’ascesa del presidente Reagan, la guerra in Vietnam, la discriminazione di genere e la disparità economica.
All’interno, lo Studio 54 ha offerto un’esperienza sensoriale straordinaria con luci lampeggianti, musica pulsante e un’ampia pista da ballo. Le feste notturne dello Studio 54 erano leggendarie, erano una performance continua a cui partecipavano anche i dipendenti stessi – tutto poteva e doveva accadere. Protagonisti indiscussi erano l’alcol, l’uso di droghe e il sesso libero.
La location si rifaceva sulla forma del teatro che vi abitava precedentemente, vi erano gallerie e balconate, lontane dalle luci dei riflettori che davano la possibilità agli ospiti di concedere un pompino nella più completa discrezione, ma era nel basement che la situazione diventava decisiva perché i materassi che lo allestivano concedono spazio a più persone, si poteva sperimentare di tutto – amore e sesso erano nell’aria, le orge erano all’ordine del giorno, erano parte stessa della festa.
Tuttavia, c’è anche da raccontare dell’altra faccia della medaglia: da un lato il piacere più intenso, ma dall’altro il terrore nella forma dell’ Acquired Immune Deficiency Syndrome (AIDS) che si impossessava gravemente e definitivamente della scena rubando e distruggendo quel perfectly crafted pleasure tanto agognato.
The last show – conclusione
Lo Studio 54 era il Monte Olimpo delle discoteche, era la Hottest Disco e il THE Place to Be. Entrare nel locale significava evadere dalla quotidianità, dalla noia e dai pensieri di una vità per certi versi complessa e pressante. Soddisfare la necessità selvaggia di abbandonarsi. Se non si fosse compreso, essere nello Studio 54 voleva dire essere catapultati in un mondo parallelo in cui tutto era concesso, senza pregiudizi, senza impedimenti, senza ostacoli. Ci si sentiva speciali, perché il momento stesso era speciale, unico e irripetibile.
Tuttavia, lo Studio 54 fu anche luogo di scandali e disaccordi. Nel 1979, i proprietari Steve Rubell e Ian Schrager furono arrestati per evasione fiscale e il club dovette chiudere i battenti poco dopo. Nonostante la sua breve vita, lo Studio ha lasciato un segno indelebile nella cultura popolare e nella storia di New York, almeno per quanto riguarda la nightlife.
L’ eredità sopravvive attraverso le storie, le fotografie e la memoria collettiva di tutti i personaggi che hanno avuto il privilegio di partecipare a una delle celebrazioni più iconiche della storia moderna.
Lo stesso founder Ian Schrager nel documentario Studio 54 (2018) ritiene che «lo Studio è stato come un esperimento sociale che non può essere ripetuto».
Articolo di : Laura Di Marco