La casa delle favole non esiste più. O meglio, non esiste più come l’ho conosciuta molto tempo fa, quando era ancora intrisa di magia e le anime di chi l’aveva plasmata con amore e dedizione non se n’erano andate.
Ero ancora una novellina nell’ambiente dell’esplorazione urbana quando, nove anni fa, una mia collega mi disse: “Perché non vai a dare un’occhiata a quella casa?”. Io, che non sapevo minimamente di cosa stesse parlando, decisi con il mio migliore amico di impiegare quel bollente pomeriggio d’agosto nella verifica della location suggerita.
Farò del mio meglio per raccontarvi questa dimora, anche se le parole non arriveranno mai ai territori malinconici che raggiunsero le mie emozioni, ognuna delle volte in cui decisi di tornare. Son certa che le fotografie del mio compagno Federico, però, saranno un grande aiuto a te che leggi: ti faranno sognare il giusto ed immaginare meglio.
Io e Francesco, facendoci largo nella vegetazione incolta del piccolo boschetto che attorniava la struttura, riuscimmo a raggiungere il cuore del giardino, con le gambe ferite dai rovi e ogni zona scoperta del corpo crivellata da punture di zanzara.
Ad accoglierci, in una parola, la meraviglia: l’area antistante all’ingresso era popolata da innumerevoli statue colorate che percepivo come fragili, in pericolo. Pensai che avrei voluto salvarle tutte dall’incuria e dall’immondizia in cui erano immerse, perché ciascuna di loro meritava di essere ammirata nei suoi dettagli, e amata. C’erano la Fata Turchina, Cenerentola col suo principe, Pinocchio col Gatto e la Volpe, il Cappellaio Matto con Alice, una bellissima Marilyn Monroe e tanti altri volti amichevoli e piuttosto familiari.
I lineamenti graziosi, quasi vitali, di ciascuna scultura mi arrivarono così dritte nel cuore che mi accorsi subito che la casa delle favole aveva rubato un pezzettino di me.
Guardando alla facciata dell’abitazione, ci rendemmo subito conto di quanto fosse forte la personalità di chi aveva vissuto lì. L’intera casa era dipinta di un azzurro intenso, ma presentava anche scene illustrate, come fosse un enorme libro delle fiabe fatto di mattoni. Da un balcone, la statua di un bimbo sciatore sembrava voler prendere lo slancio per tuffarsi giù, mentre da un altro terrazzo, Cappuccetto Rosso tendeva la mano per accarezzare il lupo. Un porticato ormai decadente con stilemi gotici proteggeva coi suoi archi l’entrata e le finestre del piano terra.
L’atmosfera era talmente surreale e densa che io e Francesco esitammo un po’ prima di entrare: nonostante l’abbandono fosse palese e la sporcizia fosse disseminata ovunque, non ci sarebbe sembrato poi così strano trovare all’interno della casa l’artista dai mille meriti. Dopo qualche sospiro di incoraggiamento entrammo con rispetto, chiedendo permesso – come usiamo fare spesso –, ed ecco che l’anima della casa divenne, se possibile, ancora più forte: ogni muro, ogni angolo e ogni oggetto all’interno avevano davvero molto da raccontare…
Sulle pareti si snodavano ancora e ancora storie, non solo quelle celebri delle fiabe, ma anche scene che potevano essere sogni, o ricordi, o bizzarre e inquietanti visioni.
Due televisori a tubo catodico portavano sui loro vetri i ritratti dipinti di Katia Ricciarelli e di Luciano Pavarotti.
Al piano superiore trovammo due letti smontati, un piccolo studio marcito a causa di un’infiltrazione e alcuni abiti ancora appesi nei guardaroba.
Una busta, poi, ci rivelò finalmente il nome degli abitanti di quella casa: Alice e Nellino Bergamini.
Nella nostra passione di esploratori urbani, racimolare tracce e indizi per ricostruire il vissuto dei luoghi che fotografiamo è fondamentale. Se internet, ad oggi, può dare molte risposte, avere tutto il ramo della famiglia da parte di mamma che viene proprio dal paese della casa delle favole è stato meglio che avere il miglior motore di ricerca a disposizione, in questo caso specifico.
Quando uscii dalla casa delle favole ero determinata a conoscere tutto su Alice e Nellino, e tutto ciò che so oggi lo devo a mia madre e alla mia prozia. Mio nonno si rifiutò di parlare di loro, come se quello fosse un argomento tabù, e insistere non servì a nulla.
Man mano che mia madre mi raccontava di questi due personaggi, la squisita follia intrinseca a quella casa sembrava assumere sempre più senso.
Alice e Nellino persero un fratellino ancora in fasce, e rimasero orfani di padre in seguito ad un incidente sul lavoro, nel quale egli morì folgorato. La loro madre, schiacciata dal lutto per la fine del marito, fece togliere l’elettricità dalla casa e allevò i suoi figli con quell’amore e quelle attenzioni un po’ troppo eccessive che forse fanno più male che bene. Si narra che, addirittura, la donna scrisse alla Sacra Rota per poter unire in matrimonio i suoi due figli, questione che ovviamente venne declinata, senza troppe spiegazioni sul significato del termine incesto.
Alice e Nellino, due persone quiete, dolci ed estremamente educate, divennero professori d’arte, ed erano molto amati dai loro alunni, sia per i metodi d’insegnamento che per l’approccio umano e paziente che mostravano nell’ambito scolastico.
Tuttavia, ad un certo punto delle loro vite, i due decisero di ritirarsi come eremiti nella loro casa per dedicarsi esclusivamente alla loro vocazione artistica: eliminando anche l’acqua e il gas, e rinunciando così a tutte le comodità, Alice e Nellino vivevano del loro orto e del loro bestiame, passando il loro tempo ad abbellire senza sosta il loro nido. Tutti i disegni alle pareti che ho avuto la fortuna di ammirare sono opera di lei, mentre lui si dedicava a tutte quelle sculture in cemento che abitavano il giardino; era talmente grato a loro da chiamarli “le mie Creature” e si rivolgeva a loro come fossero dei figli. È una scena molto tenera questa, una scena che, se ci penso, non posso fare a meno di sorridere.
Purtroppo per loro, erano gli anni Settanta, e un comportamento così stravagante e fuori dagli schemi in un piccolo paesino delle campagne venete non era socialmente accettabile: la comunità ci mise molto poco a bollarli come pazzi… E come orchi.
Chiunque si era convinto che tutte quelle statue non fossero altro che trappole utili ai due per stregare, rapire e poi mangiare tutti i bambini che si avventuravano nei pressi della loro abitazione, che in breve tempo divenne una casa maledetta. Per questo motivo i giovanissimi erano educati dai genitori e dagli anziani ad evitare di passare davanti alla casa delle favole o, se proprio era necessario, bisognava stare dall’altra parte della strada, e non guardare mai i fratelli Bergamini negli occhi, perché loro sapevano come catturare i fanciulli in un battito di ciglia.
Mia madre ricordava le sue corse in bicicletta contromano su quel piccolo tratto di via, col sudore alle tempie per l’angoscia e lo sguardo incollato davanti a sé. Ha concluso la sua narrazione con “Che stupidi che erano, tutti…” e proprio allora non ho potuto fare a meno di pensare a quanto Alice e Nellino, a causa di queste malelingue, possano aver sofferto, trincerandosi sempre più nel loro mondo azzurro e leggero, fatto di personaggi di cemento e di bellezze dipinte che non erano solo statue e illustrazioni, ma amici, confidenti e figli.
Cosa ne sapeva Nellino, che usava chiamare la sorella “Divina”, di fosse comuni situate nel suo giardino incantato, che custodivano i resti dei bambini mangiati? Cosa ne sapeva Alice, che cuciva gli abiti per entrambi e girava per casa rigorosamente in tacchi, del loro essere creature votate al male, capaci di simili abomini e stregonerie?
Mi fa male essere a conoscenza che nessuno, davvero nessuno di coloro che vivevano a pochi passi dalla casa delle favole non abbia mai aperto gli occhi sull’unicità artistica e sulla preziosità di quelle mura, nemmeno quando i due si spensero, nel 2007 lei, nel 2013 lui.
Dietro a tutti quei “Erano sporchi”, “Dormivano coi topi sui letti”, “Era meglio starci distante”, nessuno ha mai rivolto lo sguardo a ciò che nasceva dalle loro menti e dalle loro mani, così unico, così irreplicabile.
Mi fanno soffrire questa ignoranza, questa incapacità d’ascolto, questa indifferenza palese verso un microcosmo che, se compreso e salvato, si sarebbe svincolato dalla sua fama sinistra e avrebbe portato solo una gran fortuna al piccolo paese.
Due anni fa è spuntato un erede, e non è più stato possibile entrare nemmeno nel perimetro verde della proprietà.
L’ultima volta che son passata lì davanti, tutta la verzura era stata eliminata e di statue ne era rimasta una, quella del piccolo sciatore sul terrazzo.
La casa delle favole, ora, non riesco più a percepirla come viva: privata della sua anima pulsante e denudata della sua bolla verde che delimitava il confine fra sogno e realtà, conserva solo una pallida scintilla di ciò che fu, e di quei giorni in cui il mondo di due persone stravaganti, mansuete ed estrose finiva sulla soglia di un cancello.
di Giulia Massetto
Fotografie di Federico Limongelli