Immaginate di avere un palloncino. Lo si riempie assottigliandone la gomma e sale sempre più, fino a scoppiare. La follia è come questo palloncino e no, non stiamo abbattendo secoli di studi per ridurre teorie scientifiche ai minimi termini. I latini chiamavano la follia con la locuzione follis la cui origine onomatopeica ci riconduce al nostro palloncino: sacco pieno d’aria o semplicemente vuoto. La questione non è se la follia è qualcosa ripiena di una sostanza intangibile ma la domanda corretta è: la follia è un vuoto pieno di qualcosa che il nostro spettro ottico non è in grado di vedere?
Kant parla della classificazione della realtà in base ad un sistema di categorie dove ogni cosa viene scissa e assemblata per poi darne una definizione scientifica ed interiorizzarla. Ma c’è un’unica lente di lettura ossia quella dell’uomo che, essendo l’unico animale parlante, definisce cosa è e cosa non è, rispondendo alla domanda e definendo non scientifico tutto ciò che non rispetta il senso ideale accettato della società.
Follia è, quindi, una conseguente mancanza di adattamento del soggetto ritenuto out of contest.
Shakespeare ci ha scritto su Macbeth, Pirandello ci racconta di Mattia Pascal che si spaccia per morto, Cervantes vive un’avventura tra i tulipani combattendo contro i mulini a vento con Don Chisciotte. Tutti personaggi che, come il nostro palloncino, sono stati lentamente e costantemente riempiti da una serie di eventi, tanto da raggiungere la capacità di carico massima, annullarsi e scoppiare. Un trauma, un sogno irraggiungibile che diventa ossessione o l’insostenibile pressione scaturita dal vortice in cui la società ci costringe a vivere come un ciclo karmico. Costretti a correre ripetutamente sulla stessa ruota come piccoli criceti, mossi da rabbia e risentimento viene creata, quindi, una quarta dimensione su questo piano accettato come reale, dove tutto ha un’altra forma. E chi non ha i loro stessi occhi li addita come folli dove terapie, elettroshock o lobotomie non bastano per riempire di vuoto le loro teste e zittirne le voci.
L’INGANNO: IL CIGNO NERO.
Impegno e sacrificio sono la chiave per il successo. Una delle frasi che ci vengono indottrinate sin da bambini per insegnarci che solo con il duro lavoro si può ottenere qualcosa. Niente di più sbagliato, almeno per la maggior parte: nella società capitalistica dove il denaro va dove sta già del denaro, la dedizione costante ed il talento sono pressoché meri biglietti da visita senza la chiave d’accesso. E il raggiungimento di un sogno diventa una danza in cui non si smette mai di ballare, dove non sono le punte che fanno la differenza, bensì la tecnica applicata.
Il cigno nero è la perfetta rappresentazione della società divoratrice e matrigna che viene occultata nel balletto di Cajkovskij. Il regista Aronofsky finalmente da luce all’antagonista di Odette dimostrando come l’altra parte, Odile, non fosse maligna ma semplicemente alla ricerca del giusto riconoscimento nel mondo.
Ecco l’inganno: una danza estenuante senza sosta in cui la protagonista, Nina, viene inghiottita dalla smania di competizione e perfezione inculcatele dalla madre, alla ricerca della costante adulazione per l’affermazione del proprio io. Ma sarà proprio l’io interiore a ribellarsi; Nina comincerà a vedere una competizione ed infamie (in realtà inesistenti) da parte di una sua amica per impedirle di ottenere la parte del cigno bianco, diventando nemica di se stessa. Entrambe le parti vivranno contemporaneamente nel suo corpo finché il cigno nero non si ribellerà alla sua stessa padrona, lasciandola cadere in un’allucinazione che sarà il suo oblio.
L’atto si conclude con il salto nel vuoto del cigno bianco che, sfinito, mette in scena nella morte la perfezione della sua follia.
LA SCISSIONE: A TALE OF TWO SISTERS
Il peggior rimorso è la negazione. La peggior punizione, invece, la disperazione.
Far finta che pezzi non combacianti di un puzzle possano incastrarsi, distrugge gli agganci. Come quei rapporti che sembrano indissolubili tra persone così simili, il cui legame è così puro da sembrare perfetto. Qui, la storia di Soo-mi e Soo-yeon: unite indissolubilmente, tra di loro vige il classico sostegno tra sorelle in un classico scorcio di quotidianità borghese con una madre depressa e un padre assente e distratto da una nuova compagna. Ciò che fa muovere le prime pedine sulla scacchiera è il suicidio della mamma; da qui l’inesorabile missione della sorella maggiore che sentirà un forte bisogno di accudire la seconda per proteggerla da tutto, specialmente dalla matrigna Eun-joo, considerata responsabile della malattia e morte della madre.
Il plot twist sta nel fatto che, in realtà, Soo-mi avrebbe dovuto difendere sua sorella in primis da lei stessa: in costante lotta con la matrigna, sarà così presa da questa sua battaglia tanto da ignorare anche le urla di Soo-yeon mentre tenterà di salvare la madre suicida, morendo con lei.
Ecco che si districa quindi il locus amoenus della storia, dove la protagonista stende una carta da parati fatta di fiori di campo colorati per nascondere un oscuro e vergognoso senso di colpa.
Soo-mi cercherà in ogni modo di affidare la colpa della morte delle due donne alla matrigna, applicando una vera e propria scissione dell’io: se nella realtà sarà se stessa, nella sua mente rivestirà anche i panni di Eun-joo, contro cui dovrà combattere costantemente per proteggere sua sorella deceduta e smascherare le azioni dell’accaduto per suo padre. La classica follia di un’anima che troverà pace solo attraverso la sua vendetta, l’omicidio di Eun-joo.
Il regista Kim Jee-woon racconta in A Tale of Two Sisters un lento e inesorabile viaggio nel solipsismo dove i colori dell’involucro si scontrano con l’oscurità del contenuto dei personaggi e, ogni avvenimento, è dimostrazione di come anche il legame più bello e forte possa trasformarsi in una folle gabbia inespugnabile.
LA RESA: THE LIGHTHOUSE
E se la follia fosse la vera condizione dell’essere umano? Non un sogno, ma una perenne allucinazione che chiamiamo realtà.
Se potessimo descrivere The Lighthouse brevemente, questa sarebbe la perfetta chiave di lettura. Un plot scevro di qualsiasi ghirigoro ma fatto dell’essenzialità: due soli personaggi, Thomas Wake ed Ephraim Winslow con un unico scenario costituito da un faro, circondato dalla potenza del mare. Uno stage che richiama alla mente l’opera teatrale En attendant Godot di Beckett, uniti da un unico scopo: mettere in scena la follia. In quest’opera i due uomini sono ricolmi di un orrore incommensurabile provocato dalla seconda guerra mondiale e dalla strage dell’olocausto, svuotandosi di emozioni e speranze. Per questo, aspettano qualcuno che li salvi, Godot per l’appunto.
Similarmente, nel film di Eggers, i due protagonisti sono anime sole e marce, giudicate dalle loro azioni passate per condannarsi ed autopunirsi ad una vita in solitaria sul faro. Anche loro aspettano una salvezza nella realtà chiaro scura che viene rappresentata dalla luce del faro.
Il tempo passa lentamente, così come la loro lucidità; entrambi perderanno la condizione di ciò che è reale, alternando momenti di condivisione con zuffe per impedire che Winslow possa godere della luce come Wake. Né lo spettatore né tanto meno il personaggio comprende più cosa stia vivendo, se una semplice allucinazione o un sogno sospeso in cui i personaggi si trasformano in miti ellenistici subendone, alla fine, lo stesso epilogo. Infatti, come Prometeo che disubbidendo viene punito, Winslow sarà condannato da Wake a pagare per aver tentato di liberarsi dalla sua condizione di disgrazia, arrendendosi alla sua folle condizione per sempre.
Aronofsky, Jee-woon ed Eggers ci disegnano sempre lo stesso finale ma intraprendendo percorsi differenti. Sensi di colpa, bugie e condizioni sociali o costanti parallelismi: tutti i personaggi cercano di disfarsi delle mani che stringono le loro gole per soffocarli e vengono spinti dalla ricerca di un unico oggetto del desiderio, la libertà.
Non marionette, non pedine di un gioco mosso dai massimi poteri ma veri padroni di se stessi, slegati da vincoli e costrizioni per poter alleggerire quel peso che, crescendo, li tirava giù come la forza di gravità. Come palloncini, appunto, che sfidano le leggi della realtà per arrendersi al vero sé e sentirsi vivi a modo loro.