L’orario peggiore per far suonare una sveglia d’estate sono le 5:30 del mattino.
Sei lontano da quella che Bergman definiva “L’ora del lupo“ nell’omonimo film, l’ora in cui molta gente muore e molti bambini nascono. Un momento indefinito della notte, di cui si sa solo che precede l’alba di qualche ora.
Un’alba che, a quell’ora, non faresti in tempo a cogliere.
Nemmeno se, come me, vivessi a due passi dalla sabbia. Devi lavarti, vestirti, preparare la borsa — e anche volendo fare tutto di corsa, quella non è la mia destinazione.
Trenta minuti dopo, o poco più, sono in redazione. Spengo l’allarme, accendo luci e computer, e insieme alla giornalista iniziamo a selezionare le pagine interne dei quotidiani locali, per poi passare alle prime dei principali nazionali. Un rito che si ripete immutato, da quasi un anno.
Nei piccoli rimandi del taglio alto, alcuni titolano: “Addio alla leggenda Ozzy Osbourne” o “L’Heavy Metal perde il suo re”.
Accanto, però, trovano spazio “notizie” su Jannik Sinner che lava la sua Ferrari, il crollo della nazionale femminile di calcio — trasmesso senza entusiasmo, dato il suo scarso peso — o ancora, la prima di Julia Roberts alla Mostra del Cinema di Venezia, tra parate di stelle e tappeti rossi.
Il maestro affiancato dal nulla.
Nulla come l’ingiusta rilevanza assegnata nel nostro Paese.
Nulla come il mancato riconoscimento verso artisti e linguaggi troppo lontani dalle sue corde, come l’Heavy Metal, ad esempio. Spesso accusato — insieme al rap — di essere il motore delle follie giovanili.
La musica diventa un capro espiatorio ideale, chiamata in causa al posto della precarietà, dei salari miseri, delle disuguaglianze sociali, dell’alienazione, della solitudine.
È più comodo prendersela con chi urla, piuttosto che ascoltare perché lo fa.
Lo stesso dito inquisitorio è stato puntato per anni contro l’horror — un genere a cui Ozzy Osbourne era visceralmente legato.
In pochi sanno che i Black Sabbath, il suo gruppo, prendono il nome dal titolo inglese del film I tre volti della paura, diretto da un regista che condivide con Osbourne la stessa amara irrilevanza nella nostra nazione: Mario Bava.
Un talento riconosciuto nel mondo, considerato poco più che un mestierante in patria.
Un autore che ha dedicato gran parte della sua filmografia all’orrore — e che proprio per questo è stato messo da parte.

Bava e Osbourne: due figure legate al buio, al perturbante, all’eccesso.
Due alieni in una cultura che celebra ciò che rassicura e nasconde ciò che disturba.
Testate internazionali come il New York Post gli dedica l’intera copertina.
Il New York Times e il Washington Post gli riservano un trafiletto in prima pagina.
El País, in Spagna, omaggia Ozzy Osbourne con lo stesso spazio riservato in Italia, ma senza affiancarlo a gossip e notizie d’intrattenimento.

Così, mentre la macchina del mattino riparte tra luci al neon e riflessi bianchi sulle pagine non più stampate, mi rendo conto che la vera notizia è invisibile.
Non è quella che passa per i riflettori editoriali, ma quella che si sceglie di ignorare.
Il disinteresse sistemico per ciò che non intrattiene, per ciò che mette in discussione, per ciò che grida — magari distorto, truccato, con una chitarra scordata o un coltello finto in mano — ma grida.
È l’alienazione che si consuma non solo nelle fabbriche o negli uffici, ma anche nella cultura.
Nel modo in cui scegliamo cosa ricordare, cosa celebrare, cosa raccontare.
L’Italia oggi non ha dimenticato ed ignorato solo Ozzy o Bava.
Ha dimenticato di vivere nel dissenso, nella paura, nell’abisso. Ha dimenticato la propria inquietudine.
E forse è proprio per questo che la sveglia alle 5:30 nell’ingannevole estate fa così male: perché ci strappa da un mondo dove il vero sogno ancora ci appartiene — con i suoi mostri, i suoi eccessi, la sua musica a tutto volume — e ci scaraventa in uno dove il reale è fatto solo di selezione algoritmica, starlette e normalità forzata.
Dove a contare è ciò che brilla, non ciò che brucia.
Alla fine, mi chiedo se non sia questo il vero orrore: svegliarsi in un mondo dove non c’è più nulla che ci svegli davvero.


