Nel 2002 con l’uscita di “28 giorni dopo” Boyle, assieme allo sceneggiatore Alex Garland, ribaltò le regole con un film che non solo rilanciò lo zombie movie in chiave moderna, ma lo arricchì di riflessioni politiche e inquietudini sociali. A distanza di oltre vent’anni, l’imminente “28 anni dopo” segna il ritorno del duo Boyle-Garland, promettendo di chiudere (o rilanciare) una trilogia che ha segnato il cinema contemporaneo.

28 anni dopo

L’importanza e l’innovazione di 28 giorni dopo

Pur non trattandosi di zombie in senso classico, “28 giorni dopo” ha avuto un ruolo centrale nella rinascita dell’horror postmoderno. A livello visivo, Boyle sperimenta con la DV digitale a basso costo, conferendo all’opera un’estetica cruda e immediata, perfetta per un’ambientazione in cui Londra si trasforma in una città-fantasma. La decisione di girare le scene all’alba, con pochissimo personale e mezzi limitati, ha generato immagini indimenticabili, Trafalgar Square e Westminster svuotati sono diventati icone dell’apocalisse contemporanea.

28 giorni dopo

Innovativo anche nel mescolare horror, thriller, dramma esistenziale e critica sociale, evocando un’Inghilterra post-imperiale al collasso, incapace di gestire il panico e pronta a sostituire il virus con un autoritarismo violento (la seconda parte nel rifugio militare). Il film riflette i timori post 11 settembre e anticipa i futuri shock pandemici (come quello da COVID-19), interrogandosi sul ruolo della violenza, del controllo e della perdita di umanità in maniera cruda ed eccezionale

Potenza politica e sociale

Al cuore di “28 giorni dopo” c’è una domanda politica fondamentale: cosa resta dell’uomo e della civiltà in assenza delle istituzioni? L’epidemia è un pretesto per raccontare il collasso morale di una società dove il virus più pericoloso non è quello biologico, ma il ritorno alla barbarie, mascherato da protezione.

Il personaggio di Christopher Eccleston, il maggiore West, incarna una nuova distopia militare, dove il patriarcato tenta di ricostruirsi attraverso la coercizione e lo stupro sistemico. In quel contesto, Jim (Cillian Murphy) rappresenta l’evoluzione, ovvero il passaggio da uomo ordinario a figura mitica, un sopravvissuto che deve scegliere tra vendetta e umanità.

28 giorni dopo

L’opera è profondamente britannica, ma di respiro universale. “28 giorni dopo” critica l’isolazionismo, la sfiducia istituzionale e il mito della redenzione armata. È un horror che non fa solo paura, fa pensare.

28 settimane dopo: un buon sequel e un cambio di sguardo

Cinque anni dopo, esattamente nel 2007, Juan Carlos Fresnadillo dirige “28 settimane dopo” che si propone come un sequel tecnicamente ambizioso e visivamente potente, ma con un’anima diversa. Meno intimista e più spettacolare, il film amplia la portata del virus in una Londra occupata dalle forze NATO, mostrando l’incapacità della comunità internazionale di gestire la crisi.

Il film non ha la stessa intensità autoriale di Boyle, ma riesce a introdurre nuovi spunti politici come la zona rossa, la militarizzazione della vita civile, il fallimento dell’intervento umanitario. L’epidemia torna a esplodere non per caso, ma per una catena di disobbedienze, negligenze e impulsi affettivi e l’umanità, ancora una volta, è il vero problema.

28 settimane dopo

Le sequenze d’azione sono ben girate, come l’iconica fuga nei campi sotto l’elicottero. La tensione è gestita bene, con personaggi meno memorabili ma una regia tesa e nervosa. Il finale aperto lascia presagire un’escalation mondiale.

28 anni dopo: il ritorno del virus (e degli autori)

Dopo anni di rumor, ed un’attesa infinita, il 18 giugno 2025 è la volta di “28 anni dopo”, con Danny Boyle nuovamente alla regia e Alex Garland alla sceneggiatura.

Il ritorno di Boyle e Garland non è solo un’operazione nostalgia ma è una mossa simbolica. In un mondo che ha vissuto una vera pandemia globale e la violenza continua a propagarsi a battito di ciglia, il racconto post-apocalittico assume nuove valenze. Ci si attende una riflessione ancora più politica e disillusa, forse perfino distopica, su ciò che è cambiato nell’essere umano post-virus.

La potenza della saga risiede infatti nella sua capacità di evolvere con il tempo poiché non è solo un racconto di sopravvivenza, ma un commento sulla fragilità delle istituzioni, la brutalità della natura umana e la resilienza dell’empatia. “28 anni dopo” potrebbe non essere solo una chiusura, ma l’inizio di un nuovo ciclo narrativo capace di leggere il presente attraverso l’horror.

28 anni dopo

“28 giorni dopo” ha riscritto le regole del cinema di genere. “28 settimane dopo” le ha rispettate. “28 anni dopo” potrebbe rappresentare il momento della verità, un punto di sintesi tra cinema d’autore, impegno politico e spettacolo apocalittico.

In un’epoca in cui il virus è diventato realtà, le istituzioni sembrano sempre più fragili e la violenza è all’ordine del giorno, la saga dei “28” non è più solo un racconto di finzione. È uno specchio nero, profondo e feroce, della nostra società.

Correte al cinema.

Articolo di: CineDistopic

CineDistopic

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