L'(ennesimo) eterno ritorno della danza nella moda

Da poco si è conclusa la Milano Fashion Week e, fra il trionfo mai scontato del Made in Italy e studi antropologici scolpiti su tessuto, abbiamo assistito a show che ben vogliono far sposare
le caratteristiche della dimensionalità umana con caratteri di matrice attuale: Prada e la celebrazione di questo individualismo insicuro che permea nei profili social di ognuno, l’umana devozione dell’abbraccio tra Madonna ed i sempiterno duo Dolce e Gabbana e il catartico inserimento scientifico di Del Core sono solo alcuni aspetti che stringono, inconsapevolmente, tutte le collezioni in un cappio emotivo dismesso e, forse, inquietante.

Abbraccio avvenuto durante la Milano Fashion Week tra Madonna e Dolce & Gabbana

Nella ridefinizione dell’umana forma si inserisce, poi, Salvatore Ferragamo, in cui si decide di improntare il proprio racconto sulla grazia espressiva insita in ogni verticalità cosciente.
Maximilian Davis, volendo restare fedele alla storicità delle origini, plasma l’organicità seguendo gli elementi canonici della danza, integrandovi, così, l’energia dei ballerini e la fluidità dei movimenti.

Salvatore Ferragamo, d’altronde, era già forte estimatore del mondo della danza, tanto da vederlo fortemente legato a figure come Katherine Dunham e Rudolf Nureyev.

Si riconferma così, in questa settimana, il motore immobile dell’eterno ritorno, il cui revanscismo viene identificato proprio negli archetipi della danza nell’immaginario collettivo.

Analizzando, tuttavia, l’aspetto di per sé con un occhio più critico, il simbolismo che si vuole utilizzare cela in realtà un più ampio ventaglio di concetti che, ahimè, restano soffocati dall’estetica edulcorata di una coscienza pop insita ormai agli occhi dei non addetti ai lavori.

Volendo concretizzare, prendiamo come esempio la sfilata P/E 2023 di MM6 Maison Margiela, il cui scopo sembrava essere quello di portare lo spettatore dietro le quinte di uno spettacolo di danza, andando a disintegrare quell’immaginario di perfezione ed eleganza a noi familiare.

Look di MM6 Maison Margiela Primavera-Estate 2023, in cui si mette in mostra il dietro le quinte di uno spettacolo di danza

La disillusione del dolore

La ricerca di multidimensionalità è forte, si sente, permea nell’aria; con essa anche l’insoddisfazione (l’ennesima) che coinvolge tutta la dimensione della danza come pratica artistica e, soprattutto, lavorativa. Anche in tal senso, quest’ultimo aspetto viene fortemente banalizzato.
Difatti, seppur il tutto appare sorprendentemente all’avanguardia, in un ordine cromatico finemente e fintamente lasciato al caso, viene da pensare quanto l’argomento sarebbe potuto essere affrontato in modo diverso, andando a creare una narrazione che veramente fosse riuscita ad andare oltre l’apparente libertà e autenticità, nell’effettivo, poi, poco rappresentativa dell’ambiente da cui si trae ispirazione.

La realtà del dolore nel mondo della danza, al di là delle sfilate e della moda

È importante far luce su quanto in realtà, ciò che vuole essere presentato come effortless chic, porti con sé una sacralità irremovibile: gli abiti in sala prove sono, di fatto, il primo elemento utile per valutare la disciplina stessa del ballerino, senza cui non gli è concesso in primis esibirsi, seppur in mura private.

Qualsiasi deviazione dall’ordine e dalla precisione è fonte di critiche severe, accompagnate da umiliazioni così intime da segnare profondamente qualsiasi animo sensibile.
I protagonisti sono corpi scolpiti ed emaciati da una realtà che riesce a dipingere il trauma sia fisicamente, sia, soprattutto, psicologicamente ed emotivamente. Bisogna guardarsi bene, poi, dal non considerare come tutto questo sia utile e funzionale per la realizzazione professionale concreta, che affonda le proprie radici proprio nell’autodeterminazione artistica.

La realtà del dolore nel mondo della danza, al di là delle sfilate e della moda

La vita del ballerino deve, potremmo dire, gravitare proprio intorno a questa estrema tensione tra estetica e sofferenza, in cui il corpo, per forza di levare (ed il manierismo michelangiolesco non è affatto un riferimento casuale) deve rimodellarsi ad uso e consumo, sparendo via via insieme all’idea di umanità. Il Laocoonte non può urlare sguaiatamente, è il contorcersi del suo corpo a parlare per lui.

È possibile, quindi, riuscire a liberare la danza, realtà così tanto autorevolmente vulnerabile, dal matrimonio imposto con l’art pour l’art? Può l’ambizione di raggiungere la perfezione, in cui il dolore è carnefice e salvezza, svincolarsi dalle catene dell’immaginario pop, evolvere il proprio simbolo da puro rimando culturale a veicolo privilegiato utile nel dialogo sul sacrificio dell’umanità, volta a raggiungere la sua tensione innata, la bellezza? Può, il mondo della moda, squarciare davvero il velo di Maya ed iniziare ad esserne ambasciatore per antonomasia?

Articolo di Anna D. Stornelli

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